I due maggiori forzieri privati del debito pubblico pronti per essere più solidi e stabili di fronte a periodi di instabilità.
Con l’Italia finita nella tempesta dello spread e nel mirino delle agenzie di rating, Intesa Sanpaolo e Generali – ovvero i campioni del sistema finanziario italiano, anche in termini di acquisti di Btp – hanno rafforzato le «porte a tenuta stagna» delle rispettive navi.
Che sono approdate in porti sicuri.
La prima, Intesa, ha un patrimonio solido che rispetta ampiamente i requisiti minimi di capitale richiesti dalla Bce e soprattutto ha fatto una profonda pulizia nel bilancio riducendo i crediti deteriorati di circa 15 miliardi dal settembre 2015, senza gli psicodrammi che hanno avvelenato gran parte del sitema bancario nazionale. Al 30 giugno il gruppo guidato da Carlo Messina aveva a bilancio 75 miliardi di Btp, uno stock comunque quasi dimezzato rispetto al periodo pre crisi per la diversificazione del portafoglio. E ha le spalle abbastanza larghe per resistere anche a uno spread oltre quota 400, assicurano i vertici.
Seppur in maniera diversa da Intesa, il «sistema» sta traghettando in un porto sicuro anche il Leone delle assicurazioni, ovvero le Generali, che ha «in pancia» 64,2 miliardi di titoli di Stato in aumento rispetto ai 63,8 miliardi del 2015. I grandi soci più «liquidi» d’Italia hanno rafforzato la presa. Tra il 16 e il 17 ottobre, attraverso le loro holding, Francesco Gaetano Caltagirone e Leonardo Del Vecchio hanno rilevato rispettivamente 710mila e 697mila azioni del gruppo assicurativo, corrispondenti allo 0,045% e allo 0,044%. In questo modo, il gruppo Caltagirone si è portato al 4,45% mentre il patron di Luxottica (con la cassaforte Delfin) ora sfiora il 3,3 per cento. Anche la famiglia Benetton ha fatto shopping salendo al 3% del Leone. Rispetto all’assemblea 2013, sul primo piano di rilancio dell’ex ad, Mario Greco, la cosiddetta «cordata tricolore», di cui fa parte anche il socio storico Mediobanca, ora può contare su una quota complessiva di del 25,4% del capitale contro poco più del 21. L’istituto di Piazzetta Cuccia è sceso dal 13,3% al 13%, ha annunciato da tempo l’intenzione di cedere un altro 3% probabilmente entro giugno 2019 e ora sta gestendo la costituzione di un patto di sindacato più leggero dopo l’uscita dal «salotto» di Vincent Bolloré. Ma nel frattempo, il presidio dei soci «imprenditori» è salito dal 6% del 2013 a circa il 10,6 per cento. Con un ritorno di tutto rispetto, sia chiaro. Il rastrellamento di titoli ha inoltre subito un’accelerazione anche per il prezzo più basso delle azioni che nell’ultimo mese, complice la tempesta in Piazza Affari, hanno ceduto il 7 per cento.
Eppure l’attivismo e’ evidente. Al momento il pericolo di incursioni straniere non c’è. Ma con il rischio Paese così alto la roccaforte va protetta. In merito all’esposizione in titoli di Stato delle Generali, l’ad Philippe Donnet ha detto che il gruppo è «capace di assorbire uno shock rilevante sullo spread». Il conto sarà comunque salato e non a caso la compagnia si sta proteggendo preventivamente con il rimborso anticipato sui titoli di debito perpetuo subordinato in circolazione. L’arrotondamento di Caltagirone e Del Vecchio avviene, per altro, alla vigilia del nuovo piano industriale che Donnet presenterà il 21 novembre e che dovrà ripartire le risorse tra l’abbassamento del debito, il mantenimento di generosi dividendi ai soci e le opzioni di crescita. All’orizzonte c’è anche l’assemblea di aprile per il rinnovo del board (quando il presidente Gabriele Galateri avrà 72 anni e dovrebbe passare la mano): storicamente Mediobanca prepara nel comitato nomine interno i nomi del «listone» che da anni sono votate senza strappi dai soci italiani a Trieste.
Arrivata la bufera, Intesa si è rafforzata (sempre sostenuta dalle due maggiori fondazioni nazionali, la Compagnia di San Paolo e Cariplo) e i soci italiani di Generali pure. I due pilastri di sistema, la big delle banche e la big delle polizze, a un certo punto del loro percorso sembravano essere anche destinati a incrociarsi nel 2017 con la tentata scalata di Intesa al Leone. Dossier aperto e poi chiuso in cinque settimane per la fuga di notizie costata un gap di circa 7 miliardi (6 ne aveva persi la market cap di Intesa, uno lo aveva guadagnato Trieste) ma anche per le barricate alzate dal Leone.