Secondo le stime dei ricercatori di Banca d’Italia le famiglie detengono Btp per circa il 20% della loro ricchezza finanziaria, pari a 4.400 mila miliardi di euro. Nel dato è inclusa anche la quota detenuta indirettamente tramite i fondi comuni italiani ed esteri, i fondi pensione e le polizze.
Le famiglie detengono Btp per circa il 20% della loro ricchezza finanziaria, quest’ultima pari a 4.400 mila miliardi di euro. Quindi in totale nei portafogli retail ci sono 880 miliardi, poco meno di un terzo del debito pubblico dell’Italia. A riportare questa stima è un nuovo studio (La ricchezza delle famiglie in sintesi: l’Italia e il confronto internazionale) di tre ricercatori della Banca d’Italia, Diego Caprara, Riccardo De Bonis e Luigi Infante, che hanno incluso non soltanto il possesso diretto, ma anche i titoli detenuti indirettamente tramite i fondi comuni, polizze e fondi pensione.
“E’ possibile guardare attraverso i prodotti finanziari intermediati. Applicando il metodo del look-through si può analizzare la destinazione finale del risparmio delle famiglie e valutare i rischi a cui sono esposti i risparmiatori”, spiega il report che cita uno studio del 2017 di altri due esperti della Banca d’Italia. (Gli investimenti delle famiglie attraverso i prodotti italiani del risparmio gestito di Andrea Cardillo e Massimo Coletta) i quali avevano tolto il “velo” ai prodotti del risparmio gestito italiano, vale a dire individuando gli strumenti finali in cui investono fondi pensione, assicurazioni e fondi comuni.
Secondo queste stime, alla fine del 2016 i titoli di debito e le azioni rappresentavano entrambi circa il 23% della ricchezza finanziaria degli italiani. In particolare, i titoli pubblici italiani detenuti direttamente e indirettamente dalle famiglie sono circa il 16% del totale delle attività finanziarie. Ma è necessario includere anche i fondi di diritto estero che stanno prendendo sempre più piede in Italia. “La quota dei titoli di debito detenuti dalle famiglie salirebbe a circa il 30% considerando gli investimenti degli italiani intermediati dai fondi comuni esteri”, ricorda lo studio riprendendo i dati dello scorso giugno contenuti nel report, realizzato sempre all’intero della Banca d’Italia, “Gli investimenti degli italiani intermediati dai fondi comuni esteri” (a firma di Valerio Della Corte, Stefano Federico e Alberto Felettigh).
“Secondo una stima preliminare di larga massima, la quota di titoli pubblici potrebbe superare il 20%”, affermano Caprara, De Bonis e Infante che hanno l’obiettivo di riassumere i principali aspetti dell’evoluzione della ricchezza delle famiglie in una prospettiva di lungo periodo, discutendo le differenze tra le famiglie italiane e quelle dei principali paesi avanzati.
Più in generale, l’analisi afferma che la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane, detenuta sotto forma di depositi, titoli, azioni quotate e non quotate, fondi comuni, strumenti assicurativi e pensionistici privati, è pari a circa 4.400 miliardi di euro, mentre le attività reali, in gran parte immobili, sono pari a 6.300 miliardi.
I depositi bancari e postali, circolate compreso, costituiscono il 31% della ricchezza finanziaria e rappresentano la forma principale di investimento per le famiglie. “È un dato ricorrente nella storia italiana, se si fa eccezione per i periodi di forti rialzi della Borsa, quando le azioni/partecipazioni sono diventate il primo strumento: è stato questo il caso all’apice della bolla delle dot.com, e dell’intervallo 2005–2007, prima della crisi finanziaria globale”, rileva lo studio.
Mentre la discesa dei tassi d’interesse degli ultimi anni è tra le motivazioni della caduta al 7% del peso dei titoli nella ricchezza finanziaria degli italiani, dal 30% del 1990. Oggi la quota dei titoli è al livello minimo da quando sono disponibili statistiche (1950).
Intanto azioni e partecipazioni oggi costituiscono il 24% della ricchezza delle famiglie, e tale voce comprende sia azioni quotate sia azioni e partecipazioni non quotate, da sempre rilevanti in Italia, data la diffusione delle piccole imprese non quotate o a capitale non azionario, la cui proprietà è mantenuta dalle famiglie che le gestiscono.
Gli strumenti assicurativi e pensionistici privati sono al massimo storico del 23% del totale della ricchezza finanziaria, in virtù di una crescita costante, iniziata negli anni Novanta, in occasione delle prime riforme del sistema pensionistico pubblico. Fino ad allora le riserve tecniche assicurative e i fondi pensione non avevano superato il 10% della ricchezza finanziaria.
Intanto i fondi comuni, introdotti in Italia nel 1983, con un forte ritardo rispetto all’esperienza storica di altri paesi, pesano oggi per il 12% del totale della ricchezza finanziaria delle famiglie. I fondi avevano raggiunto la massima incidenza sulla ricchezza, 18%, alla fine della bolla del mercato azionario del 1995-2000. Era poi seguita una fase di ridimensionamento, anche per un trattamento fiscale non favorevole. “Negli ultimi tre anni le famiglie sono tornate a investire nei fondi: una quota così elevata all’interno della ricchezza complessiva non si osservava dal 2004. Le banche hanno favorito le sottoscrizioni, dato che la lenta dinamica del credito non impone una forte crescita della raccolta”, prosegue lo studio.
In sintesi, il calo della componente obbligazionaria nella ricchezza delle famiglie si è accompagnato a una ricomposizione verso i prodotti del risparmio gestito. “L’aggregato, che include fondi comuni e strumenti assicurativi e pensionistici, ha raggiunto il 35% del portafoglio delle famiglie, superando ormai da anni i valori toccati all’apice del ciclo favorevole della borsa del 1995–2000”, spiega l’analisi.
Per questo, nell’analizzare l’esposizione delle famiglie ai Btp, non si può prescindere dai prodotti di asset management, includendo anche gli esteri. I fatti l’analisi sottolinea la crescita continua delle attività sull’estero delle famiglie italiane, passate dal 4%del 1995 a oltre il 10%del 2017 del totale della ricchezza finanziaria. “Il fenomeno è stato in gran parte dovuto alla crescita dei fondi comuni esteri, controllati sia dalle banche italiane sia da intermediari di altri Paesi”, si legge nello studio.